Io non ho mai abitato la terra del sorriso: ho semmai fatto qualche
incursione in quella dell’umorismo o dell’ironia, ma più spesso e più a lungo
ho abitato la terra del sarcasmo; ho irriso, aggredito, ferito con le parole ma
non ho mai sorriso e non sono quasi mai stato capace di accogliere
nessuno con un sorriso che non fosse finto.
E tu adesso mi chiedi di parlarti della serenità
Epperò io accetto di
risponderti, proprio perché so che non te lo aspetti, perché so che la tua è
una provocazione che eri sicuro che io avrei lasciato cadere.
Quando stavamo assieme, periodo di cui non ricordo quasi
nulla adesso, della serenità non mi importava granché, preso come ero a sperimentare l’intensità delle emozioni che
provavo per la prima volta in vita mia, positive o no che fossero, e ne volevo sempre di più, come succede con la droga, e di
droga si trattava in effetti anche se
allora, e con la tua complicità, lo
chiamavo amore.
Lasciarti a un certo punto è stato l’unico modo che ho trovato per avere un ulteriore eccesso di emozione, ancora un
po’ di droga, il dolore della tua perdita, immaginare il tuo dolore, e
immaginare, sempre dolorosamente, te che continui la tua vita senza di me, che
ami ancora dopo di me (ah, la delizia di quel dolore) di altre mani che ti
toccano, di bocche che ti baciano, di cazzi che ti scopano:
tutto ciò me lo sono fatto bastare per anni.
Ti ricordi?
Quante volte, parlando, diciamo “ti ricordi?” quasi che la conferma dell’altro ci sia
necessaria al riconoscimento di noi stessi, della nostra storia, dei nostri
rapporti; eppure cosa c’è di più fallace dei ricordi, della condivisione dei
ricordi?
Per quanto stringiamo in nostri corpi l’uno all’altro nel
più intimo degli abbracci, le nostre anime pur tuttavia non si toccano mai e
allora, per toccarle, resta solo l’illusione delle parole.
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